Perché dobbiamo pagare le imposte? La risposta più comune è che lo Stato, sovrano, deve poter svolgere i propri compiti, e per questo deve godere di mezzi finanziari adeguati al perseguimento del bene comune. Risposta sicuramente giusta, da un punto di vista formale; rimane tuttavia aperta un’altra questione essenziale: paghiamo i tributi perché l’autorità pubblica ci costringe a farlo?
In effetti, il contribuente può senza difficoltà riconoscere di fatto allo Stato la sovranità, versandogli quindi (consapevole della sua assoluta debolezza a fronte della illimitata potenza dell’autorità pubblica) tutte le somme che richiede (con un fare, in genere, sgradevolmente minaccioso).
Tuttavia, si tratta di una sovranità che il contribuente potrebbe non riconoscere allo Stato di diritto, tant’è che in quel caso potrebbe sentirsi legittimato a sottrarsi al pagamento di tributi “iniqui”, quando se ne presenti per qualunque motivo l’occasione. Quel contribuente non si sentirà mai evasore; nella sua prospettiva avrà impedito che un rapinatore si impadronisca del suo portafogli. Infatti, uno “Stato fiscale”, fondato sulla “forza” delle sanzioni, va in crisi, perché il mero potere non è mai in realtà in grado di fondare propriamente il buon diritto (tributario).
Questo principio era chiarissimo ai nostri padri costituenti, secondo cui il potere doveva essere al servizio “..dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…” (art. 2 Cost.). La persona umana e i suoi “diritti inviolabili” preesistono infatti allo Stato e non sono “creati” dallo Stato. Proprio per rispettare la persona umana e i suoi diritti inviolabili, il contribuente deve corrispondere la “giusta imposta” che non può eccedere la sua capacità contributiva (“quantum ad facultatem agentium”). Allora, se tutto questo è inconfutabilmente vero e quindi se il contribuente concorre alle spese pubbliche solo nei limiti della sua capacità contributiva, perché il potere pubblico impone i tributi senza limiti?
La risposta più plausibile è la seguente: i tributi servono a finanziare lo Stato-provvidenza e lo Stato- provvidenza, in modo “monopolistico”, svolge compiti di “politica redistributiva del reddito” dai più ricchi ai più poveri. Da qui la giustificazione dell’imposizione che può dilatarsi senza limiti, perché l’entità del fabbisogno finanziario dello Stato-provvidenza non può essere messa in discussione. Oggi è facile constatare che, così ragionando, lo Stato-provvidenza si è trasformato da strumento contro la povertà e l’indigenza, a strumento che causa la povertà e l’indigenza (e ciò soprattutto per la classe media). È possibile porre rimedio a questa contraddizione?
Occorre innanzitutto che lo Stato-provvidenza perda un po’ del suo potere e quindi il suo “monopolio” nella redistribuzione del reddito. In altri termini, in ossequio al principio di sussidiarietà, oltre allo Stato-provvidenza, anche “..l’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …” possono e sanno occuparsi di sé e degli altri. Anzi, la libertà di occuparsi di sé stessi e degli altri attraverso atti di solidarietà è connotativa di uno Stato liberale. E allora, responsabilizziamoci tutti e deresponsabilizziamo lo Stato-provvidenza. Anche secondo la Costituzione (art. 53) l’imposizione fiscale non costituisce l’unica modalità di contribuzione alle spese pubbliche. Ciò in quanto è fatto obbligo al cittadino contribuire alle spese pubbliche. Tuttavia, i tributi rappresentano una (e non la sola) delle modalità di contribuzione, ma non l’unica.
Pertanto, se il modello impositivo è troppo oneroso per i cittadini, spetta al legislatore (con l’aiuto di tutti) individuare, nel rispetto del principio di sussidiarietà, strumenti di attuazione del riparto dei carichi pubblici tra i contribuenti, “pluralistici” e alternativi rispetto all’imposizione fiscale, e ciò al fine di meglio garantire il raggiungimento del fine dell’ordinamento statale, ovvero il riconoscimento e la tutela dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost (anche per la classe media).