Cosa dice la sentenza della Cassazione (8 luglio 2015 n. 14226) a proposito della natura giuridica delle scuole paritarie? Quali sono le conseguenze di un tale pronunciamento?
Non si può rispondere a questa domanda, senza analizzare il percorso logico-argomentativo espresso dai giudici.
A tal proposito, la Cassazione è chiara: siccome le rette versate dai genitori alle scuole paritarie costituiscono corrispettivi, allora quelle scuole paritarie rientrano nella categoria degli “enti commerciali”, dovendo perciò versare l’ICI. In pratica, il corrispettivo può essere, di per sé, sufficiente a considerare una scuola paritaria alla stessa stregua di una qualsiasi impresa.
Ebbene non si deve essere giuristi per capire che un simile argomento non soddisfa, perché scardina principi giuridici consolidati, e, più grave, tutto un sistema, quello degli enti ecclesiastici e delle scuole paritarie, che da sempre si regge, in buona parte, sul volontariato.
È vero, fiscalmente, non è sufficiente non distribuire utili (il c.d. lucro soggettivo) per dirsi ente non commerciale.
In particolare, l’ente non commerciale è tale perché ha, come interesse essenziale e prioritario, lo svolgimento di una particolare attività non commerciale (come lo è l’attività didattica), mentre l’aspetto economico, consistente anche solo nel pareggio di bilancio (il c.d. lucro oggettivo) è, tutt’al più, un elemento accidentale. In concreto, proprio perché il suo scopo non è la remunerazione del capitale investito, un ente non commerciale può continuare a svolgere la propria attività, sebbene in perdita sistemica (come nel caso delle scuole di Livorno che hanno riguardato la sentenza). Infatti, si può sopravvivere anche grazie a donazioni, oppure a contributi volontari, aggiuntivi.
Ma non solo, non può dirsi commerciale neppure quell’ente che non gode di un’autonomia di tipo economico. Cosa significa? Un ente non è titolare di un’autonomia economica quando disposizioni normative specifiche impongono regole precise per l’impiego delle sue risorse. Tali regole limitano l’autonomia economica dell’ente che quindi non dispone, liberamente, delle proprie risorse finanziarie. Ebbene, questo è il caso proprio degli enti ecclesiastici (come presumibilmente sono le scuole livornesi). Infatti, le disposizioni normative di diritto canonico ed ecclesiastico (riconosciute dall’ordinamento italiano grazie alle intese Stato-Chiesa cattolica) impongono proprio regole precise per l’impiego delle risorse di cui sono titolari gli enti ecclesiastici stessi.
Fatte queste precisazioni giuridiche di tipo pratico e sistematico, occorre ora svolgere alcune considerazioni sotto il profilo dei principi costituzionali.
A ben vedere, le conseguenze di questa sentenza non interessano solo le scuole di Livorno o in generale le scuole paritarie.
La posta in gioco è più alta.
Il tema centrale è infatti il seguente: si concorre alle spese pubbliche solo versando i tributi (come l’ICI o l’IMU) oppure famiglie, scuole e gli enti privati, svolgendo servizi sociali essenziali in ossequio al principio di sussidiarietà, concorrono alle spese pubbliche in modo diretto, esercitando la loro attività e portando a termine responsabilmente i loro compiti di rilevanza pubblica?
La questione – lo si capisce bene – riguarda il concetto stesso di sussidiarietà, di pluralismo e di democrazia (partecipativa).
Infatti, affermare che si concorre alle spese pubbliche solo versando i tributi, vorrebbe dire che lo Stato e gli enti territoriali (Regioni, Province e Comuni) hanno il monopolio sulla solidarietà o sull’insegnamento.
Se passasse questo principio, le scuole paritarie sarebbero solo private e non avrebbero alcun rilievo pubblico. Ma lo stesso varrebbe anche per le famiglie, per le opere di carità etc.
Tutto questo non regge, è contro la Costituzione e, più gravemente, non gratifica il cittadino-contribuente, il quale deve essere premiato e non disincentivato quando persegue, in prima persona e responsabilmente, il bene comune, proprio come le scuole paritarie, ovvero enti non commerciali che esistono perché la loro missione è quella non tanto di stare sul mercato, svolgendo un’attività commerciale, quanto piuttosto di aiutare, insegnando, le generazioni future, garantendo altresì il diritto dei genitori di scegliere la migliore educazione per i propri figli.