Il peso economico del sistema previdenziale è oggi sulle spalle della popolazione attiva, che lavora. E poiché la “popolazione inattiva” tende ad aumentare, inevitabilmente con essa aumenterà il peso economico per la “popolazione attiva”. È giusto, anche da un punto di vista costituzionale, difendere a tutti i costi, un simile sistema quando non è più sostenibile, soprattutto per le generazioni future?
La questione “pensioni” è sempre più centrale nell’attuale dibattito. Come ribadito dalle colonne di Avvenire lo scorso 3 giugno, le pensioni calcolate con il sistema retributivo impattano sulla fiscalità generale per circa 100 miliardi di euro. In pratica, anche i contribuenti concorrono alla spesa previdenziale. La restante parte della spesa è finanziata dai contributi di chi è attualmente in servizio (il c.d. sistema a ripartizione). Il peso economico del sistema previdenziale è quindi sulle spalle della popolazione attiva, che oggi lavora. E poiché la “popolazione inattiva” tende ad aumentare, inevitabilmente con essa aumenterà il peso economico per la “popolazione attiva”.
Cosa succederà? La risposta è semplice: le risorse finanziarie sono destinate a essere dirottate sempre di più verso la spesa sociale e sempre di meno verso quella produttiva. Ciò significa più consumi, da una parte, e meno investimenti e meno sicurezza sociale per chi oggi sostiene il sistema, dall’altra. In questo modo le risorse economiche di una comunità sono distrutte, un paese si impoverisce.
Ebbene, il dibattito, sin qui, si è soffermato sulla tenuta economica e finanziaria della spesa pensionistica. La domanda è ora un’altra: è giusto, anche da un punto di vista costituzionale, difendere a tutti i costi, un simile sistema quando non è più sostenibile, soprattutto per le generazioni future?
La Corte costituzionale è sembrata chiara: ridurre le erogazioni a favore dei pensionati non è mai legittimo neppure se a repentaglio sono i conti pubblici.
È quantomeno curioso il fatto che la stessa Corte dimostra così tanta attenzione solo nei confronti dei pensionati, mentre se i soggetti “vessati” sono i contribuenti come le famiglie e le imprese, allora l’equilibrio dei conti pubblici diventa prioritario rispetto alla giusta imposizione.
Questa schizofrenia pare tuttavia solo parzialmente giustificabile.
Infatti, ai sensi dell’art. 38 della Costituzione, le prestazioni previdenziali sono dovute solo nell’ambito dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Tali prestazioni non possono dunque tradursi, di fatto, in una rendita.
La comunità assolve perciò al suo munus previdenziale, nella misura in cui l’ammontare delle pensioni rispettano le finalità di tipo solidaristico. Quando, invece, tali finalità non sono rispettate, non si può parlare di funzione previdenziale e, per l’effetto, non si può neppure invocare, per quelle pensioni, una protezione di tipo giuridico/costituzionale.
Pertanto, se i conti pubblici sono in pericolo e soprattutto se le generazioni future, a causa della tassazione e degli oneri sociali, hanno ridotto la propria capacità di investimento e di risparmio (anch’esse costituzionalmente tutelate), non si capisce perché il legislatore, dopo aver stabilito un (eccessivo) trattamento pensionistico, non può discrezionalmente revocarlo o ridurlo.
In concreto, perché non è possibile revocare o ridurre, per legge, prestazioni pensionistiche eccedenti le finalità di solidarietà proprie della funzione previdenziale?
In conclusione, sino a oggi i giuristi hanno considerato omogenee e intoccabili tutte le prestazioni pensionistiche. Una tale interpretazione, oltre a non essere coerente con la natura e le finalità della funzione previdenziale, rischia di tutelare in modo eccessivo alcuni anziani privilegiati, mentre preclude ai giovani di programmare il proprio futuro e agli indigenti (tra cui molti anziani) di essere assistiti dignitosamente.